Capitolo VI
007 e 707
“On the way the paper bag was on my knee / man, I had a dreadful flight”.
La canzone “Back in the USSR” dei Beatles del 1968, parodia “comunista” di “California Girls” dei Beach Boys, era la prova musicale che i Fab Four, i fantastici quattro, non erano altro che dei convinti patrioti e difensori della loro compagnia aerea nazionale ormai da parecchio tempo in difficoltà, non molto diversa quella russa, Aeroflot. Se Juan Trippe avesse ascoltato i Beatles, l’avrebbe trovata divertente quella canzone. Ma senza nemmeno ascoltare un loro brano, rimase comunque molto soddisfatto di quello che allora fu il colpo pubblicitario dell’anno, quando i Beatles preferirono la Pan Am alla BOAC per volare a New York nel febbraio 1964, in occasione del loro esordio al The Ed Sullivan Show, un’esibizione di cinque canzoni che sconvolse il mondo.
Da quel momento, iniziò la cosiddetta invasione britannica della cultura pop: nella musica i Rolling Stones, i The Who, i Kinks e molti altri, che ribaltarono completamente le classifiche dei brani Top 40; nel campo della moda, le minigonne di Mary Quant; nelle sfilate, Twiggy, Jean Shrimpton e David Bailey; e tutto d’un tratto, a partire da quella notte di Ed Sullivan, il miasma del dopoguerra in Inghilterra, che era sempre sembrato così confusionario e retrogrado, fu risollevato da una nuova generazione di baby boom, ora grande abbastanza da scegliere le tariffe turistiche di Juan Trippe. L’Inghilterra era incredibilmente glamour, trendy e “diversa”, eppure così vicina. Il 707 poteva raggiungerla in meno di sei ore, molto meno di un’intera giornata lavorativa.
I Beatles furono addirittura un colpo ancora più grande per Juan Trippe di quanto lo fosse stato Winston Churchill nel 1961, quando proprio il “vecchio leone” Churchill scelse la Pan Am per volare a New York. Hai perso Britannia! Il passaggio di Churchill a un velivolo americano fu tanto triste per l’Inghilterra quanto il giorno della Battaglia di Yorktown. Si portò con sé un intero entourage sul Boeing 707 Clipper Fairwind: il suo medico, due infermiere, il segretario personale e un ispettore di Scotland Yard. Il banchetto aereo fornito dal Maxim’s e presentato per il britannico più famoso di tutti, era qualcosa di eccezionale: prosciutto, salmone, caviale, zuppa di tartaruga, aragosta alla Thermidor, sogliola, pernice dell’Himalaya servita con riso selvatico, controfiletto, Stilton, tarte Maxim. Trippe fece ancora aggiungere qualche extra per Churchill, come la senape in polvere Colman’s, rafano piccante, marmellata Tiptree, i crumpet, più otto bottiglie di Lafite Rothschild del ’52, un po’ di cognac Bisquit e di Rémy Martin, una bottiglia di Ouzo greco, e una scatola di sigari cubani Romeo y Julieta. Nessun cielo era mai stato così accogliente prima d’ora.
I Beatles invece, erano molto meno impegnativi. Dei viaggiatori innocui, semplicemente entusiaste di essere a bordo del 707. Davanti a loro avevano solo giorni pieni di Stilton e sigari. La gioventù americana aveva un disperato bisogno di eroi, di idoli. La potentissima generazione del baby boom, in arrivo con l’adolescenza, aveva una enorme mancanza da colmare. Il “re” Elvis Presley, aveva abdicato per essersi arruolato nell’esercito ed esser stato poi risucchiato nelle fauci di Hollywood, a fare film osceni. Il nuovo re John F. Kennedy era stato assassinato appena tre mesi prima, a novembre. I Beatles e i loro giovani colleghi britannici non avrebbero potuto scegliere momento migliore per emergere dalla malinconia dell’Inghilterra e disperdere un po’ di quel pessimismo americano, fino a colmare finalmente questa mancanza di icone.
Se Dio non avesse potuto salvare la regina, c’era un uomo che di sicuro l’avrebbe fatto. In fin dei conti, “qualcuno doveva pur farlo”. La Gran Bretagna del dopoguerra era rimasta molto indietro rispetto alla Francia, in un abisso di disperazione, miseria e razionamento. Il suo fascino stava nella storia, nel suo passato imperiale, sul quale il sole stava rapidamente tramontando.
Il salvatore in questione era un vero britannico della vecchia scuola, uno stereotipo che Temple Fielding avrebbe accolto e decantato. Era un uomo in sintonia con il suo cuore. Se Temple Fielding avesse scritto romanzi, avrebbe potuto creare lui stesso il personaggio. Questo britannico, con il volto dai tratti ben marcati che promosse un centinaio di jet e un migliaio di Guidester, era James Bond. A partire dal 1962 con Agente 007 – Licenza di uccidere, i film di James Bond furono un successo dopo l’altro, anno dopo anno, e un biglietto del cinema poteva essere un potenziale biglietto aereo. I film erano, in sostanza, dei fantastici diari di viaggio con sesso, suspense, azione, diversi marchingegni e un consumismo sfrenato mai trasmesso sul grande schermo. Zero zero sette, grazie alla sua totale scaltrezza, convinse molte più persone a visitare l’Inghilterra di quanto non fecero Henry Higgins ed Eliza Doolittle in My Fair Lady. Le riprese del 707 della Pan Am che si esibisce in un atterraggio perfetto nel film Agente 007 – Licenza di uccidere, erano un capolavoro di pubblicità occulta che avrebbe potuto esser stato progettato da Juan Trippe, anche se in realtà non lo era. L’immagine diceva “James Bond è arrivato – con il jet, con amore e con la Pan Am”.
L’autore che creò James Bond era una versione molto inglese di Temple Fielding. Ian Fleming era nobile per nascita, un amante dei piaceri, un dongiovanni arguto e colto. Adorava i Martini, shakerati, non mescolati e adorava ancora di più le donne, godere della loro compagnia in qualunque momento della giornata. Viveva in un’isola della Giamaica, proprio come Fielding viveva in un’isola di Maiorca. Cenavano negli stessi ristoranti gourmet, soggiornavano negli stessi hotel di lusso. A Ian Fleming sarebbe piaciuto essere uno scrittore di viaggi, uno scrittore di viaggi ricco come Temple Fielding. A questo proposito, il fratello maggiore di Fleming lo aveva battuto. Peter Fleming era lo scrittore di viaggi di maggior successo in Inghilterra. Senza obiezioni. Perciò, Ian Fleming, nell’ultima parte della sua vita, imboccò la strada dello scrittore di romanzi e ci riuscì alla grande, oltre qualsiasi aspettativa. Temple Fielding utilizzava i fatti per spingere le persone a viaggiare, per vedere il mondo in tutto il suo splendore. Ian Fleming faceva lo stesso ma con l’aiuto della fantasia.
Fin dal principio Ian Fleming aveva gli occhi puntati su Hollywood, facendo leva su ogni americano intento a gustarsi il suo martini shakerato a Goldeneye, in grado di condurlo verso qualche importante produttore cinematografico che potesse mettere James Bond sul grande schermo. Hollywood si dimostrò del tutto indifferente. L’unico schermo che veniva considerato più o meno interessante era quello della televisione, un mezzo poi emarginato e a malapena quello a cui aspirava Fleming.
Mettendo da parte i suoi sogni cinematografici, Fleming continuò a scrivere un nuovo libro ogni anno, anche solo per distrarsi dalla sua unica fonte di reddito, sua moglie, e dai piagnistei del figlio. Scrivendo tutto il giorno, e facendo una pausa solo per bersi martini e fumarsi innumerevoli sigarette, Ian iniziò ad avere delle relazioni – e molte. La sua nuova amante preferita era Blanche Blackwell, regina indiscussa dell’isola, che si diceva essere la musa ispiratrice per il personaggio di Pussy Galore nel film del 1959, Missione Goldfinger. In seguito, Ian avrebbe organizzato un incarico da assistente per la produzione del film Agente 007 – Licenza di uccidere, per il figlio di Blanche, Chris Blackwell, il quale avrebbe scoperto il cantante Bob Marley negli anni sessanta, e sarebbe poi diventato un grande impresario di musica reggae-rock.
L’articolo sulla rivista Life, portò Fleming di nuovo alla Casa Bianca. Tuttavia, era molto distaccato nei confronti di Washington, come Hollywood lo era stata con lui tempo prima. Non gliene importava niente della Casa Bianca, ci era già stato. Lui voleva Hollywood, più di qualsiasi altra cosa. E ora aveva la sua occasione. Prima di Life, i libri su Bond avevano venduto bene ma niente di spettacolare. All’improvviso, iniziarono a vendere milioni di copie e sempre da un giorno all’altro, Hollywood era pronta per fare il film su Bond. Beh, non proprio Hollywood stessa.
I magnati di Los Angeles avevano ancora i loro dubbi. Bond era troppo britannico, di istruzione troppo “alla Eton College”, secondo loro, per relazionarsi con un pubblico americano. Britannico significava troppo sofisticato, snob, arguto: in due parole, David Niven ne Il giro del mondo in 80 giorni. David Niven era fantastico, ma non riuscivano a immaginarlo mentre uccideva la gente. Nemmeno Cary Grant era proprio il classico assassino. George Sanders, troppo vecchio. In definitiva, i magnati non riuscivano a vedere nemmeno John Wayne nei panni di James Bond. Nessuno era il genere di star che cercavano. Una volta compreso che Fleming aveva un lato così eccessivo, ritennero che anche i suoi libri fossero un po’ troppo stravaganti per gli americani.
Ci vollero due produttori americani in esilio a Londra per prendere la serie di libri britannica e trasformarla nella serie di film di maggior successo che l’America, e il mondo intero, avesse mai visto. I due uomini, aspiranti pezzi grossi di Hollywood, erano Harry Saltzman e Albert Broccoli, rispettivamente un ebreo di Montreal e un italo-newyorkese.
Fleming era talmente entusiasta per il contratto del suo film che ignorò le voci secondo le quali Broccoli fosse un mafioso. E quindi? Non è quello che farebbe James Bond? Fare affari con i criminali, anche se su scala globale? E poi, l’associazione “italiano” con “mafioso” era ormai diffusa e spiacevole. Ci sarebbero voluti i nuovi jet e il turismo di massa per mostrare agli americani il vero stile e l’eleganza dell’Italia, e per sostituire lo stereotipo di Al Capone e Lucky Luciano con quello di Gianni Agnelli e Marcello Mastroianni.
Insomma, la soluzione al loro enigma era de-Etonizzare James Bond, ingaggiando l’attore meno Etoniano in tutte le isole britanniche, ovvero Sean Connery, un ex bagnino e secondo classificato al titolo di Mr. Universo, con braccia muscolose che sfoggiavano i tatuaggi con la scritta “Mamma e Papà” e “Scozia nel cuore”.
Così tanta era la magia della cinematografia, che anche la moda trovò il suo posto in prima fila. Grazie a luoghi esotici, protagonisti eleganti, scene di sesso, macchine sportive, martini shakerati, completi su misura, cattivi con l’intento di dominare il mondo, Agente 007 – Licenza di uccidere diventò senza dubbio il primo film e l’emblema del cinema del Jet Set. Non che i critici siano rimasti sbalorditi dal film quando uscì in Inghilterra nell’autunno del 1962 e in America nella primavera del 1963. Il Time derise questa pellicola e la considerò “stupida” e il New York Times concordò sulla frivolezza del film.
Il film dell’anno successivo, Agente 007 – dalla Russia con amore, doppiò il budget a 2 milioni di dollari e quadruplicò il totale lordo. Ian Fleming morì nel 1964 all’età di cinquantasei anni in seguito a un infarto, temuto da parecchio tempo, a causa di alcol e fumo. Non riuscì mai a vedere Agente 007 – Missione Goldfinger, film da 3 milioni di dollari uscito poco dopo, che ne incassò 125 milioni e produsse il gioco più venduto dell’anno, un modellino verde da corsa della Aston Martin DB5 britannica. Il rilascio di Agente 007 – Missione Goldfinger, che coincideva anche con l’uscita dell’album Meet the Beatles, trasformò Londra nel luogo da Jet Set più cool sulla terra.
Era proprio questa comunità internazionale, con sede a Londra, che più di qualunque altra definì una società di nomadi globali, scatenati dai nuovi aerei jet.